Maurizio  Ferraris 
              Che  cosa si può fare con un bastone? 
              Anassagora non sembra avere esitazioni:  l’umano è più intelligente degli altri animali per via della mano, che gli  consente delle manipolazioni pratiche e di qui, con un processo che può durare millenni,  lo sviluppo dell’intelligenza. In questo senso, la definizione dell’umano in  Anassagora suonerebbe come: l’umano è l’animale dotato di mano. L’umanesimo  sarebbe un manesimo, un poter manipolare, e disporre di maniglie, manici,  mazze, missili, e ovviamente anche di monete, manuali, moleskine, e cellulari,  che – con un anglismo molto espressivo – in Germania si chiamano “Handy”. 
              Aristotele, come sappiamo, non condivide  la prospettiva di Anassagora, e non stupisce, dal momento che per lui l’umano è  l’animale dotato di linguaggio, e che ama stare in società. Proprio per questo,  prosegue Aristotele, è più intelligente degli altri animali, ed è come una  conseguenza e non come una causa che riceve, diversamente dagli altri animali,  la mano.  
              La presa di posizione di Aristotele ci  pone di fronte a una cerimonia implausibile e favolosa, quella del conferimento  della mano. Gli animali sono schierati, ognuno con le sue caratteristiche e con  le sue abilità, e l’uomo con la sua socievolezza (che al momento non può  esprimersi sé con strette di mano né con pacche sulla schiena) e con il suo  linguaggio che gli è venuto dal cielo insieme alla sua intelligenza mostruosa.  Il Dio li passa in rassegna, e, compiaciuto dell’intelligenza dell’umano, lo  premia con una mano, anzi, don due. 
              Ci sono ottime ragioni per pensare che non  sia andata così, e che Anassagora avesse ragione. Perché la visione di  Aristotele suppone un momento esatto in cui l’umano avrebbe ricevuto il  linguaggio, qualcosa come una pentecoste che discende dal cielo, e in cui ha  deciso di mettersi in società per semplificarsi la vita (non è detto) e por  fine alla guerra di tutti contro tutti (non è detto nemmeno quello).  
              Sono visioni ingenue e mitologiche, ma che  vengono condivise anche dai nostri contemporanei che parlano senza difficoltà  di “istinto del linguaggio” e di “intenzionalità collettiva”. Il primo ci  permetterebbe di parlare, proprio come per i frenologi il binocolo  dell’aritmetica ci permetteva di contare. La seconda sarebbe alla base del  sistema di accordi e di imposizioni di funzioni da cui nasce il mondo sociale. 
              Ma, banalmente, se gli umani non fossero  stati in grado di accendere un fuoco, il che richiede certe abilità con le  mani, sarebbero mai riusciti a formare quel primo nucleo in cui, passandosi  cibi (manipolati), spulciandosi a vicenda (con le mani), abbracciandosi e  accoppiandosi hanno avuto inizio le prime comunità? Queste comunità erano  ancora in tutto e per tutto simili a quelle del nostro passato animale, la sola  differenza era la capacità di accendere il fuoco, che dipendeva dalle peculiari  conformazioni delle nostre mani. 
              Il fuoco e il raccogliersi intorno a esso  provocheranno altri sviluppi legati alla mano. Armi per colpire, attrezzi per  tessere e per coltivare, e soprattutto pratiche di fabbricazione che  archiviavano in se stesse i processi che le avevano costituite, dando luogo a  tradizioni plurimillenarie (si pensi all’evoluzione dei manufatti di pietra  scheggiata), e di qui alla nozione di tradizione e di storia, che si è manifestata  anzitutto con delle rappresentazioni (dipinti, cippi e statue che evocavano  eventi) e poi si è sviluppata in concetti, ed è diventata cultura, un termine  che tuttavia, non dimentichiamolo, trae la propria origine dalla coltivazione,  dalla manipolazione tecnica della natura. 
  È a questo punto che l’umano si è trovato  a possedere un linguaggio e una società. Quest’ultima nasce dalla condivisione  di uno spazio protetto di condivisione di beni, tanto è vero che qualunque  venir meno della condivisione e della protezione (la politica ce ne dà prove  infinite) genera un crollo della solidarietà sociale, sino alla rottura del  patto e dichiarazione secondo cui la società non esiste, ma esistono solo gli  individui. E il linguaggio si sviluppa dopo il gesto, e dopo la scrittura e la  manipolazione, nelle condizioni rese possibile dall’una e dall’altra: è un  risultato e non un presupposto. Nel momento in cui le mani dell’umano sono  impicciate da apparati tecnici, non potrà più servirsene per esprimersi, e  incomincerà a parlare, in un processo che sura centinaia di migliaia di anni e  nel quale, facciamoci caso, i primi nomi indicano degli attrezzi, così come i  primi cognomi delle professioni legati alla manipolazione: ferrari, calzolari,  mugnai, sarti. 
            Non c’è nulla dentro l’animale umano che  lo renda diverso dagli animali non umani. È tutto fuori. Nella mano che  permette l’attrezzo, capitalizzando la forza (un bastone moltiplica il braccio)  la memoria (un bastone è buono per annotare i giorni che passano facendone un calendario)  la società (su due bastoni, uno del debitore e uno del creditore, se li si  pongono accanto, facendo una tacca per ogni transazione, si può creare una  contabilità efficiente). E nel capitale ottenuto attraverso la registrazione  che si trasforma in accumulo della cultura, della ricchezza, delle risorse, che  permettono l’emergere di quella caratteristica soltanto umana, perché nasce da  una sovrabbondanza di risorse, che è il progetto. 
             
            Maurizio Ferraris è professore di Filosofia teoretica presso   l’Università di Torino. Nelle sue ricerche filosofiche ha contribuito   alla rielaborazione delle posizioni ermeneutiche e negli ultimi anni è   passato dalla proposta di una ontologia critica e sociale allo sviluppo   di una posizione filosofica che può essere definita “nuovo realismo”, in   alternativa al postmodernismo e al pensiero debole. Dirige il LabOnt   (“Laboratorio di Ontologia”) e collabora con le pagine culturali de “la   Repubblica”. Dopo aver scritto e condotto “Zettel - Filosofia in   movimento” per Rai Cultura, dal 2015 conduce “Lo Stato dell’Arte” su Rai   5, dedicato all’approfondimento di temi d’attualità, politica e   cultura. Tra i suoi libri recenti: Goodbye Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura (Milano 2004); Dove sei? Ontologia del telefonino (Milano 2005); Sans papier. Ontologia dell’attualità (Roma 2007); Il tunnel delle multe. Ontologia degli oggetti quotidiani (Torino 2008); Piangere e ridere davvero. Feuilleton (Genova 2009); Ricostruire la decostruzione (Milano 2010); Estetica razionale (Milano 2011); Filosofia per dame (Milano 2011); Anima e iPad (Milano 2011); Manifesto del nuovo realismo (Roma-Bari 2012); Realismo positivo (Torino 2013); Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce (Roma-Bari 2014); Spettri di Nietzsche (Milano 2014); L’imbecillità è una cosa seria (Milano 2016); Postverità e altri enigmi (Milano 2017); Il denaro e i suoi inganni (con J.R. Searle, Torino 2018). 
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            Silvia  Vizzardelli 
              L’atto  teleplastico: le sagome del pensiero 
Non occorrono mani per plasmare corpi.  Esiste un’attitudine plastica del pensiero e del linguaggio che non si serve  della diretta manipolazione, non fa rotolare materie raccolte nel mondo per dar  loro forma, ma si fa corpo. Il pensiero è capace di una diffusa plasticità e  tattilità fantasmatica, al punto che, potremmo dire, i pensieri si vedono, si  toccano, si plasmano con strane mani: le mani di un tatto interno, che  coincidono con la superficie del pensiero, raccolto, ripiegato, chiuso a  formare l’involucro di se stesso: una mano perimetrale, una mano-cute. C’è un  pensiero nel pensiero, una voce nella voce, una parola nella parola che danno corpo,  tridimensionalità a ciò che, in prima battuta, sembrerebbe disciogliersi  nell’evanescenza diacronica di una successione impalpabile. C’è qualcosa di  inesorabile, di consistente, di fissato, di materico nel pensiero, una sorta di nous aptico in cui circola trionfante  Eros. Ecco perché non riusciremo a tener distinti pensiero e godimento. Nel  pensiero, nelle parole, si annida, si imbozzola il godimento, e non si dà jouissance che non sia un prender corpo.  Per far questo, occorre posizionarsi in un regno intermedio tra bisogno e  desiderio, che è precisamente il regno del godimento e delle figure  fantasmatiche: il godimento non ha l’inquietudine dell’inesauribile apertura  all’alterità, perché si nutre di materializzazioni, fissazioni, idoletti,  forme, spettri, ma non ha nemmeno la chiusura che la soddisfazione apporta al  bisogno. E’ una corpsistenza, per  riprendere un neologismo lacaniano, un prender-corpo che non si lascia  catturare dalle smanie del possesso. Ecco è, forse, proprio questa la struttura  del fantasma: un prender-corpo non irretito dall’uso e dal possesso, non  afferrabile e capitalizzabile. Proprio come accade agli spettri: figure  plastiche che, però, non possiamo raccogliere e custodire e che, se  possiamo toccare, ciò accade grazia ad una sorta  di tatto interno. 
  Nel pensiero contemporaneo, il concetto di plasticità viene perlopiù utilizzato  per alludere alla capacità trasformativa dell’uomo, alla facoltà di rigenerarsi  in un morphing fluido e continuo a discapito della permanenza e fissazione  delle scritture. Penso in particolare al lavoro di Catherine Malabou che  contrappone l’evanescenza trasformativa della plasticità al carattere  permanente dell’iscrizione. Scopo del mio intervento sarà quello di mostrare come,  per comprendere l’atto teleplastico, non si possa prescindere da quella che  chiamerei degustazione della forma chiusa. E’ in questa ripiegatura gustativa che si rivela la familiarità di ogni  nostro pensiero col godimento. Il godimento evoca una sorta di tornitura, di sagomatura intorno al farsi di un corpo. 
Silvia Vizzardelli  (Torino 1967) ha conseguito il Dottorato di ricerca  in Estetica presso l’Università di Bologna nel 1999, con una tesi sulla musica  nell’estetica di Hegel. È Professore associato di Estetica  nel Dipartimento di Studi Umanistici  dell’Università della Calabria dal 2006. E’ membro della Società Italiana di  Estetica (SIE). E’ capofila di un progetto interuniversitario di nome Skia. Estetica e psicoanalisi volto ad  organizzare, tra le altre cose, una Summer School dedicata al tema della  visione fantasmatica. Collabora col quotidiano Il Manifesto e il suo  settimanale Alias. Il suo ambito di ricerca comprende i rapporti tra estetica e  teoria delle arti, e ha dato ampio sviluppo ai temi connessi alla filosofia  della musica. Da qualche anno si occupa del rapporto tra estetica e  psicoanalisi. Tra le sue pubblicazioni in volume: L’esitazione del senso.  La musica nel pensiero di Hegel (Roma: Bulzoni 2000); a cura di, La  regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale  contemporanea (Macerata: Quodlibet 2002); Battere il tempo. Estetica e  metafisica in Vladimir Jankélévitch (Macerata: Quodlibet, 2003); Filosofia  della musica (Roma-Bari: Laterza 2007); Verso una nuova estetica.  Categorie in movimento, (Milano: Bruno Mondadori 2010); con Felice Cimatti,  a cura di, Filosofia della psicoanalisi, Un’introduzione in ventuno passi (Macerata: Quodlibet 2013), Un canto, un corpo. Teorie romantiche della  musica (Il Glifo ebook, 2013); Io mi lascio cadere. Estetica e  psicoanalisi (Macerata: Quodlibet); La  tentazione dello spazio. Estetica e psicoanalisi dell’inorganico (con V. De  Filippis, Orthotes 2017); con M. Bonazzi, C. Serra, a cura di, Voce. Un incontro tra filosofia e  psicoanalisi, (Mimesis 2018). 
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            Gaetano Rametta 
            Filosofia  trascendentale e pensiero contemporaneo 
            Introduzione  alla filosofia trascendentale. Breve storia del concetto nella filosofia  classica tedesca: dall'Io penso di Kant alla Vita assoluta di Fichte:  de-soggettivazione del trascendentale e ridimensionamento della coscienza. Il  trascendentale nel contemporaneo:  il pensiero di Deleuze, dall'empirismo trascendentale a "Che cos'è la  filosofia"; implicazioni etiche e politiche.  
            Sull'avvenire  della filosofia 
            Gaetano Rametta insegna Storia  della filosofia all'Università di Padova. Ha scritto monografie su Hegel,  Fichte e Bradley. Nei suoi testi dell'ultimo decennio, ha cercato di mostrare  l'importanza della filosofia trascendentale per il pensiero contemporaneo.             
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            Après-coup 
             
            Daniele Poccia 
              La libertà dell'errore:  l'epistemologia storica e la Critica del giudizio 
               
              Alessandra Campo 
              L'atto libero in Spinoza e Kant 
            Per la breccia al  criticismo e la trasgressione dell’interdetto su cui si fonda (“all’ente finito  non è data intuizione intellettuale”), non è necessario attendere il 1790. Già  nel cuore della seconda Critica l’intuizione bandita sin dai  tempi della Dissertatio torna a far capolino in un punto  preciso: il Faktum della ragione.  Kant è  convinto che solo la voce bronzea del dovere può evocare la maestà della legge  senza infrangere il suo imperscrutabile mistero e, nondimeno, è proprio questa  voce che, nella terra della morale, comanda l’impossibile: dedurre l’ontico  dall’epistemico. Il dovere, è vero, fornisce alla ragione il suo punto  archimedeo - la libertà -, ma glielo fornisce in un modo bizzarro nel quale si fa  fatica a non riconoscere l’argomento ontologico così caro agli “entusiasti”  che, servendosene, si macchiavano, davanti agli occhi di Kant, di una colpa  indelebile. Nello specchio offertole dall’idea cosmologica di libertà la  ragione si scopre, infatti, legislatrice ed esecutrice a un tempo,  contemplativa e attiva, recettiva e spontanea, perché quando il velo  dell’interdetto cade, anche se solo per un attimo, l’idealismo critico appare  per quello che è: un esercizio debitamente trascendentale e debitamente realistico,  nient’altro che un atto libero. 
           
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            LabOnt 
            Erica  Onnis 
              Libertà  e determinismo. Un falso dilemma.  
Il termine “determinismo” può essere  inteso in almeno due modi. Il primo è un determinismo causale, secondo il quale  tutto ciò che accade nell’universo sarebbe causalmente necessitato da  stati a esso precedenti in virtù di ferree leggi di natura. Questo tipo di determinismo  è diacronico e può essere visto come un determinismo “orizzontale” che  definisce lo sviluppo e le dinamiche di stati-di-cose o processi. 
Il determinismo può essere  alternativamente inteso in forma “verticale”, come un tipo di determinazione  costitutiva sincronica, secondo cui la natura dei fenomeni macroscopici (le  pietre, i tavoli o le persone), sarebbe determinata dalle proprietà delle loro  parti costituenti (gli atomi, le molecole o le cellule). Questa forma di  “micro-determinismo” può essere correlata all’atomismo, secondo cui la realtà  sarebbe composta da alcuni tipi di mattoncini fondamentali in grado di  aggregarsi e comporre le diverse entità che popolano il mondo determinandone le  proprietà e governandone il comportamento. 
Così come li abbiamo enunciati, sia il  determinismo causale sia il micro-determinismo rappresentano una minaccia per  l’autonomia delle entità macroscopiche e, di conseguenza, dell’agire umano.  Essendo l’uomo parte del mondo, avendo esso alle spalle un certo passato ed  essendo infine soggetto alle leggi naturali, la possibilità che l’agire umano  sia “libero”, ossia solo parzialmente determinato dal passato e dalle  leggi di natura, pare metafisicamente esclusa. 
            Tiziana  Andina 
              Atto libero: i vincoli dell'arte 
              L’opera d’arte è davvero frutto di un atto  libero? L’arte contemporanea pone molte questioni interessanti alla filosofia:  in sede ontologica assistiamo alla decontrazione della ontologia classica;  inoltre, gli artisti dopo aver diligentemente decostruito i paradigmi più noti,  nel corso del Novecento paiono essersi liberati da qualsiasi vincolo normativo.  Ma è davvero così? 
            Cercheremo di mostrare come questa assenza  di normatività sia soltanto illusoria e come di fatto le arti contemporanee  abbiano sviluppato una ontologia e una normatività diverse da quelle  tradizionali aprendo in questo modo nuove possibilità per le arti.             
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            Philosophy Kitchen 
            Dopo  la struttura. Stili e voci di un’enciclopedia dei saperi 
             
            Da cosa nasce l’atto del pensiero? E,  soprattutto, da cosa nasce la creatività che quell’atto caratterizza? Certo  dalla plasticità cerebrale; ma, non meno, dal fatto che ogni atto di pensiero  del soggetto presuppone una dipendenza da reti di saperi più vaste, sussumibili  sotto il concetto di enciclopedia. In tale incontro si esploreranno alcuni  aspetti di questo intreccio, mostrando il modo in cui i saperi si  costituiscono, sia come entità storico-istituzionali dipendenti dal nesso tra  verità e potere; sia come entità pertinenti la dimensione categoriale, del  tutto autonoma, eppure al contempo decisiva rispetto a quel non ancora attuale  che si dà come evento.  
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            Centri di ricerca             
               
              LabOnt 
            Fondato nel 1999, e già afferente al Dipartimento di  Filosofia, il LabOnt (laboratorio di Ontologia) è un centro di ricerca specializzato  in ontologia sociale e in estetica (cfr. sul sito ufficiale la sezione LabOnt  Art). Diretto, sin dalla sua fondazione, da Maurizio Ferraris, il centro  comprende a oggi 7 professori e ricercatori, 4 postdoc, 6 dottorandi e 9 membri  associati. Scopi prioritari sono lo sviluppo e il coordinamento della ricerca,  la formazione di giovani ricercatori, l’organizzazione di convegni e di  workshop, la diffusione dei risultati delle ricerche dei suoi membri attraverso  pubblicazioni scientifiche di carattere nazionale e internazionale. Il gruppo  di ricerca afferente al Labont ha collaborato alle attività di numerosi PRIN  (Progetti di Ricerca di rilevante interesse Nazionale), sotto la coordinazione  nazionale di Maurizio Ferraris.             
            Philosophy Kitchen 
              è una rivista di filosofia fondata da un gruppo di giovani studiosi  dell'Università degli Studi di Torino, che lavorano sotto la supervisione del  prof. Giovanni Leghissa. Il nostro intento principale è quello di creare le  condizioni ottimali per uno spazio di riflessione filosofica che sia in grado  di ospitare, nello stesso tempo e in maniera incondizionata, spunti fecondi  provenienti dalle più diverse aree del sapere. Qui, fenomenologia,  decostruzione, teoria dei sistemi, filosofie della vita, filosofia del diritto  e della giustizia, filosofie interculturali, antropologia filosofica,  psicoanalisi e molto altro ancora, troveranno terreno fertile per mettere  radici, ma, soprattutto, per fare rizoma. 
               
              Après-coup 
            Il centro studi Après-coup nasce nel 2014 presso il  Dipartimento di Scienze Umane dell'Università dell'Aquila su iniziativa di  Rocco Ronchi, Alessandra Campo e Daniele Poccia con l'obiettivo di riflettere  sulla rilevanza filosofica della concettualità psicoanalitica. Nel corso degli  anni ha promosso una serie di iniziative sui temi comuni alla pratica  psicoanalitica e alla pratica filosofica rivolgendo una particolare attenzione  al rapporto della psicoanalisi con la fenomenologia, con l'epistemologia della  complessita e con  l'"empirismo" bergsoniano e deleuziano.  
              
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            direzione della scuola Rocco Ronchi  
            organizzazione Masque teatro 
             
            PRAXIS 
              Info ed iscrizioni 
            info@praxis-scuoladifilosofia.eu 
            Masque teatro - 393.9707741 
                         sede dei corsi 
          Sala Nassirya - Palazzo ex-Tribunale, Piazza G.B. Morgagni n.2, Forlì 
              
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